Un motore Volkswagen esce dalle linee

Lo scandalo Volkswagen tra crisi
e nuovo sviluppo del settore

di Giuseppe Berta
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Ormai è una vera e propria valanga quella che si sta abbattendo sulla Volkswagen, destinata a ingrossarsi ancora di più nei prossimi giorni.
Non si tratta soltanto dell’ulteriore, tremenda perdita di valore che il gruppo di Wolfsburg ha scontato ieri presso la Borsa di Francoforte e nemmeno dell’inchiesta a livello europeo invocata dal ministro delle Finanze francese Michel Sapin o del perentorio invito a fornire spiegazioni da parte del governo della Corea del Sud. Questi atti sono in un certo senso prevedibili, considerata la gravità dell’inganno perpetrato da VW ai danni dei consumatori. A impressionare è soprattutto l’entità delle vetture che sarebbero state dotate del dispositivo per nascondere la consistenza effettiva delle emissioni inquinanti: si parla addirittura di 11 milioni di veicoli.

Una cifra tale da sconvolgere e forse, in prospettiva, rivoluzionare il sistema dell’automobile su scala mondiale. Di fronte a numeri simili si fa fatica a immaginare oggi le ripercussioni che potranno avere su un settore industriale del rilievo di quello dell’auto, “l’industria delle industrie”, secondo una celebre definizione di Peter Drucker che risale a settant’anni fa. Certo è difficile poterne sottovalutare la portata, perché l’automobile è uno dei prodotti più toccati dal processo di globalizzazione. Proprio per questo vale la pena di situare la crisi della VW nella logica di trasformazione che sta cambiando i confini del settore, determinando anche un nuovo profilo del prodotto automobile.

Fino a qualche giorno fa erano tre le case produttrici che si disputavano la prima posizione: Volkswagen, Toyota e General Motors stavano attorno alla medesima soglia di 10 milioni di vetture all’anno. Delle tre, solo la casa tedesca correva esplicitamente per il primato, giacché la Toyota bada a difendere i propri livelli di qualità e di redditività e la General Motors ha ancora la memoria recente della crisi distruttiva del 2008-09. A dare ascolto a Sergio Marchionne, tuttavia, non è più possibile seguire la strada del passato. Argomenta infatti Marchionne che l’industria dell’auto ha costi di investimento insostenibili, per creare sempre nuovi modelli, nuove tecnologie, nuovi prodotti.

La concorrenza conduce così a un’autentica distruzione di capitali. Occorre, conclude Marchionne, un “consolidamento”, cioè una fusione tra i gruppi per creare dimensioni maggiori, tali da ottimizzare le strutture di costo. Ecco perché una fusione tra Fiat-Chrysler e General Motors creerebbe una realtà industriale che permetterebbe di consumare meno capitale, assicurando una gamma d’offerta imponente per i consumatori di tutto il mondo.

La ricetta di Marchionne è adatta a far sopravvivere il sistema dell’auto grazie a una vasta e metodica opera di razionalizzazione. Non altera radicalmente la struttura del prodotto. Si preoccupa di far in modo che i suoi costi possano essere assorbiti da imprese grandissime, in grado di ammortizzarli. Non è però l’unica via d’uscita dalla trappola mortale in cui rischia di essere catturato il settore. Ce n’è un’altra alle viste, che punta tutto sull’innovazione e che ha citato lo stesso Marchionne nell’incontro con gli analisti finanziari in cui, a fine aprile, ha lanciato la sua proposta.

La seconda strada possiamo chiamarla californiana perché appunto passa dallo stato Usa che concentra più imprese votate all’innovazione. Negli ultimi mesi, si è parlato con frequenza sempre maggiore dal progetto di nuova auto che sta mettendo a punto la Apple: sì, proprio il marchio di Steve Jobs che siamo abituati ad associare ai computer, ai tablet, ai telefoni cellulari e che per la prima volta si sta cimentando con un prodotto diverso. Il progetto si chiama Titan e ha lo scopo di immettere su mercato, forse già entro il 2019, un nuovo modello, molto speciale, di auto elettrica. Chi ha visto il prototipo ha detto che sembra un minivan, ma attenzione: vuol essere qualcosa di diverso da una vettura tradizionale, perché è concepito come un dispositivo mobile altamente sofisticato. Un’auto che naturalmente non deve inquinare e che, al limite, potrebbe non aver bisogno di un guidatore, potendosi guidare da sé, magari con una connessione a Google Maps.

Alcuni di coloro che lavorano al progetto Titan vengono da un’altra impresa di avanguardia tecnologica della California, Tesla, nota per le sue vetture elettriche. Altri vengono dall’industria dell’auto; del resto il capo di Apple, Tim Cook, ad agosto è stato visto in Germania, a Lipsia, dove c’è un’importante fabbrica della Bmw, con cui sono in corso contatti. Per ideare e lanciare un’auto, pur del tutto innovativa, c’è sempre bisogno delle competenze di settore e nessuno negli ultimi tempi ha dotato di tanta tecnologia i suoi modelli come Bmw.

Scenari avveniristici? Progetti che stentano a diventare un’opportunità concreta di business? È chiaro che molti rimangono scettici dinanzi alle possibilità di successo di queste nuove auto. In Italia, per esempio, pochi hanno fin qui scommesso sulle auto elettriche, anche per la difficoltà della loro ricarica. Eppure, sul nostro territorio esistono già stazioni di rifornimento per veicoli come le Tesla, la maggiore delle quali si trova ad Aosta ed è dotata di quattordici postazioni di ricarica. Segno che s’incomincia a credere anche da noi nel futuro dell’auto elettrica.

Non c’è dubbio che il cataclisma innescato dallo scandalo VW accelererà i mutamenti in corso nel sistema dell’auto e offrirà rapidamente un terreno reale di verifica per le differenti strategie che si confrontano.


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Martedì 22 Settembre 2015 - Ultimo aggiornamento: 26-09-2015 15:44
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