
Tra crisi e transizione: l’industria dell’auto italiana alla resa dei conti
C’era un tempo in cui l’Italia dell’automobile era sinonimo di orgoglio industriale, innovazione, prestigio. Torino era la Detroit d’Europa, e da Mirafiori uscivano modelli destinati a motorizzare intere generazioni. Oggi, lo scenario è radicalmente cambiato. Il 2024 si è chiuso con appena 310.000 autovetture prodotte nel nostro Paese, un dato che segna un crollo dell’85% rispetto ai fasti del 1989, quando si sfioravano i due milioni di unità. E mentre il resto d’Europa, pur tra mille difficoltà, si attrezza per affrontare la transizione alla mobilità elettrica, l’Italia sembra incapace di trovare una rotta condivisa.
A lanciare l’allarme è un dettagliato rapporto curato da ECCO – il think tank italiano per il clima – e da Transport & Environment, che, con il supporto della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e del Centro Ricerche Enrico Fermi di Roma, ha quantificato gli effetti economici e occupazionali della mancata transizione elettrica. Ma a stretto giro di posta è arrivata anche la replica, pungente e polemica, di Confcommercio Mobilità, che accusa lo studio di essere l’ennesimo esempio di “lobbying verde”, lontano dalla realtà produttiva e industriale del nostro Paese.
I numeri (preoccupanti) della crisi - Il rapporto “Tra crisi e transizione”, pubblicato nell’aprile 2025, fotografa una situazione drammatica: un’industria automobilistica in declino costante, sempre più marginale nel contesto europeo, con una produzione elettrica praticamente irrilevante – nel 2024, solo il 14% delle auto prodotte in Italia era elettrico, e quel numero è sceso a 45.000 unità totali, in calo rispetto alle 78.000 dell’anno precedente.
Lo studio mette nero su bianco le conseguenze di un’ulteriore inazione. Tre scenari modellati con tecniche input-output tracciano un possibile futuro da qui al 2030. Nel caso più pessimistico, definito “High intervention” (ma inteso in realtà come scenario a basso assorbimento dei lavoratori in esubero), si stimano oltre 94.000 posti di lavoro persi, con un crollo del 58% nei consumi di auto e un impatto potenziale sulla spesa pubblica per ammortizzatori sociali di quasi 2 miliardi di dollari. Anche lo scenario “prudenziale” non è roseo: quasi 67.000 posti di lavoro perduti e mezzo miliardo di dollari in cassa integrazione.
Tutte le proiezioni, comunque, concordano su un punto: senza interventi strutturali, il valore aggiunto dell’intero settore potrebbe dimezzarsi entro fine decennio, trascinando con sé competenze, filiere, occupazione e capacità industriale.
Le ricette proposte: missione, filiera, tecnologia - Per invertire la rotta, il rapporto propone un piano articolato in quattro direttrici strategiche: missione, settore, tecnologia e mercato. In sostanza, si chiede un’azione coordinata a livello governativo ed europeo per:
rilanciare la domanda interna di veicoli elettrici, con incentivi e strumenti innovativi come il leasing sociale rivolto a chi è in “povertà di mobilità”;
sostenere la riconversione industriale, investendo in formazione tecnica e nuove competenze;
favorire la ricerca e sviluppo su batterie, tecnologie abilitanti e materiali circolari;
ridurre drasticamente il costo dell’energia, allineandolo agli altri Paesi europei, anche separando i prezzi di elettricità da fonti rinnovabili da quelli legati al gas.
Il rapporto guarda anche al modello francese dell’Ecoscore, suggerendo un sistema premiale per incentivare auto non solo più pulite ma anche con maggiore contenuto locale. Un modo, insomma, per attrarre investimenti produttivi invece di importare soltanto veicoli a basso costo da Asia e Cina.
Il contrattacco: “Ancora lobbying green” - La reazione di Confcommercio Mobilità non si è fatta attendere. In un comunicato stampa dai toni decisi, l’organizzazione denuncia quella che definisce “l’ennesima offensiva delle lobby della transizione”, accusando il rapporto di muoversi secondo logiche ideologiche ereditate dal Green Deal europeo, “guidato dall’ormai ex commissario Frans Timmermans, fortunatamente scomparso dalla scena”.
Secondo Confcommercio, lo studio non attribuisce responsabilità al principale costruttore italiano, che ha progressivamente abbandonato il comparto, né riconosce il valore delle politiche nazionali volte a promuovere i carburanti rinnovabili, come i biocarburanti. In più, si contesta la proposta di nuovi incentivi all’acquisto, ritenuti poco efficaci, costosi e destinati soprattutto a favorire le importazioni di auto elettriche economiche, visto che l’industria italiana ha ormai smesso di produrre vetture nei segmenti A e B.
“Con questi metodi si può drogare il mercato per brevi periodi – si legge nel comunicato – ma non si ottengono risultati duraturi.” La via maestra, per Confcommercio, resta quella della neutralità tecnologica: accompagnare l’abbandono graduale dei carburanti fossili con l’impiego di alternative come l’e-fuel e i biocarburanti, lasciando alla ricerca il compito di trovare le soluzioni più efficaci.
Un dibattito che va oltre l’ideologia - In mezzo a questa polarizzazione, il settore industriale continua a perdere pezzi, e il rischio è che il dibattito si impantani in una guerra ideologica tra “elettrici a tutti i costi” e “difensori del motore a scoppio”. Eppure, entrambe le posizioni pongono interrogativi legittimi.
Sì, è vero: il mercato elettrico italiano è asfittico e gli incentivi rischiano di non bastare. Ma è altrettanto vero che senza una strategia chiara, l’Italia rischia di uscire definitivamente dai radar dell’automotive europeo, lasciando a Germania, Francia e Spagna (che stanno già attrezzandosi per produrre elettriche per il mercato di massa) il grosso della torta.
Nel frattempo, Cina e Stati Uniti stanno consolidando il loro primato tecnologico, investendo miliardi in batterie, chip e piattaforme EV. Se non si interviene ora, colmando il gap tecnologico e infrastrutturale, tra qualche anno sarà troppo tardi per rientrare in gioco.
Un bivio senza tempo da perdere - Il vero nodo della questione è forse proprio questo: la mancanza di tempo. Mentre l’Italia discute, gli altri Paesi agiscono. I 5-6 anni che ci separano dal 2030, data chiave per la transizione europea, sono pochissimi in termini industriali. E l’automobile, checché se ne dica, non è solo un prodotto: è una piattaforma industriale, logistica e tecnologica che genera indotto, innovazione, occupazione qualificata. Lasciarla andare significa impoverire il Paese.
Serve un confronto serio, non ideologico, capace di tenere insieme sostenibilità, industria e mobilità accessibile. E serve il coraggio di decidere.