Zanardi, il dottor Costa: «Meno grave di Schumacher, l'ho visto: la sua anima reagisce»

Zanardi, il dottor Costa: «Non corre i rischi di Schumacher, l'ho visto: la sua anima reagisce»

di Gianluca Cordella
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Il dottor Claudio Costa è stato per più di trent'anni l'angelo dei piloti del Motomondiale con la sua Clinica mobile. Ma non solo. Tra tutti i fenomeni della velocità che ha assistito c'è anche Alex Zanardi, che, lavorando con lui, cominciò la sua seconda vita, quella post Berlino 2001. Fu, quello, il punto più alto di un'amicizia che ha attraversato i decenni e che ha spinto lo specialista imolese ad andare subito a Siena, appena raggiunto dalla notizia dell'incidente del campione paralimpico.

Dottore, che idea si è fatto del quadro clinico di Zanardi?
«Il trauma è gravissimo, come testimonia il fatto che sia stato sottoposto a un intervento neurochirurgico di tre ore. Premesso che l'equipe della Terapia intensiva del policlinico senese è composta da medici di grande valore, quello che mi tranquillizza di più è che ho avuto la sensazione che in Alessandro qualcosa si stesse già muovendo. Che il cavaliere invincibile avesse iniziato la sua battaglia da guerriero. Così come si è ricostruito dalle macerie di Berlino, dove la morte gli ha rapito mezzo corpo, a Siena ha già cominciato la sua partita per la rinascita. Credo che ce la possa fare, ma questa è un'informazione che le do con la forma di un mio sogno».

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Credo che ce la possa fare può avere mille sfumature diverse.
«Io sono ottimista e questa volta trascendo talmente tanto da pensare che potrebbe anche andare alle Olimpiadi di Tokyo. In questo momento drammatico mi conceda questo sogno».

La situazione di Zanardi, in queste ore, è stata spesso accostata a quella di Michael Schumacher: sono davvero situazioni simili?
«È un'analogia comprensibile. Ma da quello che mi risulta, dati anche i parametri del cervello, credo che i medici di Siena siano abbastanza tranquilli sulle condizioni della materia cerebrale».

Quindi un quadro clinico meno grave?
«Io direi di sì e me lo auguro. Poi, quando sarà il momento di svegliarlo, si vedrà quali sono le condizioni di questo cervello che, ripeto, a me sembra che tutto sommato abbia reagito molto molto bene».

Lei ebbe un ruolo chiave nell'aiutare Alex a riprendersi dopo l'incidente di Berlino: qual è l'episodio che l'ha segnata maggiormente?
«C'è una cosa in particolare: a due mesi dall'incidente, con i monconi ancora parzialmente aperti e le arterie non ancora chiuse, che potevano minacciare emorragie, Alessandro mi chiese di metterlo in piedi al Motorshow perché dovevano consegnargli il Casco d'oro. Che fatalmente gli fu consegnato proprio da Michael Schumacher. Me lo chiese al telefono, io gli risposi: dammi cinque minuti. Mi stesi sulla poltrona dalla quale gli stavo parlando e cominciai a pensare a come potevo aiutarlo. Perché non potevo dirgli non si può. Con lui non è una risposta possibile, bisogna sempre tentare. Capii che dovevo solo dargli delle protesi e un fisioterapista che lo aiutasse. A dicembre sul palco del Motorshow di Bologna Alex, sorridente, riceveva il Casco d'oro in piedi e disse: Questo è il primo passo per la vittoria più importante della mia vita. Era la prima volta in assoluto che lo vedevo in piedi dopo l'incidente, erano passati appena due mesi e mezzo dall'incidente di Berlino».

Come si aiuta un campione a superare un trauma di quel tipo?
«Bisogna stargli vicino e ascoltare con attenzione cosa dice la sua anima. Soprattutto se quell'anima non riesce a parlare».

E la sua anima, invece, cosa dirà ad Alex appena ne avrà l'opportunità?
«Adesso andiamo a Tokyo alle Olimpiadi».

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Martedì 23 Giugno 2020 - Ultimo aggiornamento: 09:21 | © RIPRODUZIONE RISERVATA