Chattare al cellulare mentre si guida un mezzo aziendale è un comportamento che porta alla perdita del posto di lavoro, una condotta sulla quale non si può chiudere un occhio infliggendo solo una sanzione disciplinare conservativa dell’impiego, ma scatta il licenziamento per giusta causa. L’avvertimento arriva dalla Cassazione - verdetto 30271 della Sezione lavoro, depositato oggi - che ha respinto il ricorso di un autista di una società di servizi logistici integrati che mentre era in viaggio in Austria, su un’auto della ditta, aveva causato un tamponamento «per grave colpa» in quanto, tra l’altro, «anche conseguente all’utilizzo alla guida di una chat telefonica». Senza successo l’autista, Franco F., ha contestato il licenziamento inflitto nel 2017 dopo la ricostruzione dei fatti realizzata con la ‘scatola nerà, oltre che in base ai verbali della polizia stradale austriaca e dalle testimonianze di chi aveva assistito al tamponamento avvenuto nel novembre 2015, e ha sostenuto che si trattava di un provvedimento «discriminatorio».
In primo grado il Tribunale di Frosinone aveva convalidato il licenziamento, lo stesso aveva stabilito, nel 2018, la Corte di Appello di Roma. Ad avviso dei giudici di merito, il cuore del problema non è tanto il fatto che sia stato danneggiato un mezzo aziendale affidato al lavoratore quanto «piuttosto» la circostanza che chattare alla guida diventa una «negligenza o imperizia» che «assume rilievo tenuto conto delle mansioni di autista svolte e che giustifica l’interruzione del rapporto di lavoro». Un punto di vista che è stato del tutto condiviso dalla Cassazione anche per quanto riguarda l’affermazione che «date le mansioni ci si aspetta una elevata soglia di perizia alla guida, quella diligenza ‘dell’homo eiusdem professionis et condicionis’, tale per cui un simile comportamento, violativo delle norme sulla circolazione stradale con conseguente causazione dell’incidente, è certamente lesivo del rapporto fiduciario» tra datore di lavoro e dipendente «e giustificatrice del recesso».
Secondo gli "ermellini", la Corte di appello ha correttamente ritenuto che «la condotta accertata, avuto riguardo alle mansioni svolte, integrasse una negligenza gravissima, lesiva del vincolo fiduciario che deve sorreggere il rapporto di lavoro». «Non una mera incuria nello svolgimento della prestazione che il contratto collettivo punisce con una sanzione conservativa, ma una giusta causa di licenziamento», conclude la Cassazione.