La rivoluzione cinese è giunta fino a noi. Uno dei fattori di maggiore cambiamento nel panorama automotive odierno - che riguarda tanto il segmento delle flotte quanto il mercato privato - è l’arrivo dell’industria cinese in Europa. Secondo i dati dell’Osservatorio Auto e Mobilità della Luiss Business School, nel 2022 le vetture realizzate in Cina e immatricolate in Europa (Ue+Efta+Uk) sono state 455.400 (462.600 nei primi tre trimestri 2023), per una quota di mercato complessiva del 4% (4,8% nel 2023). In Italia le immatricolazioni di vetture realizzate in Cina sono state 39.000 nel 2022 (pari a uno share del 3%), mentre nei primi tre trimestri del 2023 sono salite a 59.400, per uno share del 5%.
Non si tratta di un tentativo di penetrazione poco convinto, come quello dei primi anni 2000 (qualcuno forse ricorderà la breve parabola dei marchi Landwind e Brilliance, terminata sull’onda delle polemiche per la scarsa sicurezza delle auto made in China). L’ultima avanzata del “Dragone asiatico” ha tutto il potenziale per diventare un fenomeno stabile e duraturo, che potrebbe cambiare l’aspetto del mercato europeo per come lo conosciamo oggi. Non è di per sé una novità: negli anni ’90 l’Europa ha assistito all’arrivo dei costruttori giapponesi e, in seguito, di quelli sudcoreani, e in entrambi i casi il fenomeno è stato preceduto da allarmismi poi rivelatisi infondati, visto che giapponesi e coreani hanno dato un enorme contributo alla crescita del comparto automobilistico europeo. Eppure, la “lunga marcia” dell’automotive cinese presenta degli aspetti differenti e per molti versi inediti, che comportano una serie di interrogativi sui potenziali risvolti. Anzitutto, per una questione di dimensioni: la Cina è il principale produttore di autovetture, il primo mercato al mondo e, dal 2023, anche il primo esportatore.
Una “potenza di fuoco” che lo rende il paese con il maggior numero di Case costruttrici (i marchi attivi sono centinaia). In secondo luogo, l’espansione di queste aziende è stata e continua ad essere sostenuta in varie forme dallo stato cinese, che ha ormai individuato l’automotive come un settore strategico per l’interesse nazionale. Ma il dato più dirompente è il netto vantaggio tecnologico nell’elettrico con cui i cinesi si presentano sul mercato europeo, frutto anch’esso di una “scommessa” fatta quindici anni fa da Pechino, oggi rivelatasi lungimirante. Era il 2009 quando il governo individuò i veicoli elettrici come un'opportunità per lo sviluppo di un comparto automobilistico autoctono, indirizzando pesanti investimenti nel settore, con ampio anticipo rispetto alle case europee. Oggi il risultato è sotto gli occhi di tutti: realtà come Byd, Xiaomi, Xpeng, Nio, Geely dettano il passo dell’innovazione nel campo dell’elettrico. Lo stesso Luca De Meo, ceo di Renault e presidente dell’Acea, ha osservato come la Cina abbia “una generazione di vantaggio” sull’auto elettrica. Alle aziende occidentali non rimane che inseguire (con alcune eccezioni, come Tesla), oppure allearsi con il Dragone, sfruttando i vantaggi che ha da offrire in termini di know how e contenimento dei costi di produzione.
Così, la maggior parte delle vetture made in China che arriva in Europa (il 46,4% nei primi tre trimestri 2023, secondo l’Osservatorio della Luiss) sfoggia sul cofano un marchio occidentale, come per la Dacia Spring, la Smart #1, la Cupra Tavascan, ma anche la Tesla Model 3, realizzate in stabilimenti cinesi. L’Europa ha risposto all’arrivo del Dragone annunciando un’inchiesta antidumping sugli aiuti di Pechino al settore automotive, in base alla quale la Commissione UE potrebbe decidere di incrementare i dazi sulle vetture provenienti dalla Cina. Per non farsi trovare impreparati, molti attori asiatici stanno iniziando a vagliare l’ipotesi di produrre in Europa, come Byd che ha ufficializzato una fabbrica in Ungheria, mentre Chery ha raggiunto un accordo con il governo spagnolo. Notizie che per il momento interessano mercati dove i costi di produzione sono più bassi di quelli italiani, anche se il Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha dichiarato l’esistenza di “un’interlocuzione con Dongfeng”.
Ma l’avanzata del “Celeste Impero” in Europa è solo uno dei tanti aspetti di una sfida che la Cina sta vincendo soprattutto lì dove è più rilevante per il mercato globale, ovvero a casa propria. Se fino al 2019 il 42% delle auto vendute in Cina apparteneva a marchi europei e i brand locali totalizzavano uno share complessivo del 27%, oggi i rapporti di forza si sono invertiti. I costruttori autoctoni, infatti, hanno raggiunto una quota del 43% sul mercato domestico, mentre gli europei sono scesi al 32% (dati provenienti dal rapporto Aniasa – Bain & Company 2024). Non è tanto una questione di patriottismo, quanto di mutamento delle aspettative: quello cinese è diventato un mercato “tech-driven”, fatto di consumatori giovani, dall’ampio potere di spesa e particolarmente esigenti in fatto di contenuti tecnologici. Un mercato in cui le Case europee – con alcune eccezioni per i marchi di lusso – hanno perso ormai il fascino dovuto all’heritage e all’immagine, e vengono superate in desiderabilità da brand spesso appena nati. E il Salone di Pechino dello scorso aprile rappresenta un’ottima metafora di tutto ciò: nonostante le novità di Audi, Volkswagen, Mini, Mazda e Toyota, la star indiscussa dell’evento sfoggiava sul cofano il marchio Xiaomi.